“L’età delle parole è finita per sempre?”
Una kermesse dedicata ad Antonia Pozzi
Autori vari. A cura di Gianni Criveller
(Fara Editore, 2022)
Antologia con saggi critici su Antonia Pozzi di quattro studiosi (Suor Onorina Dino, Graziella Bernabò, Davide Puccini, Marco Dalla Torre), e con contributi di autori vari, comprendenti riflessioni, testimonianze, versi.
Il mio testo:
La parola, un tesoro che va protetto, nel suo grido e nel suo silenzio
La parola è tutta “umana”. Ecco perché è impossibile prescinderne. Pertanto, l’età delle parole non finirà mai: sarà sempre la “nostra” età, anche tra mille cambiamenti di codici, di senso, di peso e consistenza.
La parola è un tesoro che va protetto, con attenzione e con amore, perché è un ponte verso l’interiorità e verso l’alterità. E come ogni strumento umano, è al servizio della vita: non il contrario. Non deve essere né idolatrata, né strumentalizzata, né reificata.
Eppure, il rischio della deriva è sempre presente.
Ce lo ricorda, ad esempio, il racconto archetipico di Babele. Il vero dramma di Babele è la perdita del senso dei rapporti interpersonali, a causa dell’omologazione e dell’utilitarismo. Il popolo che costruisce la torre, subordinando a tale ambizione fagocitante ogni altra attività quotidiana, è una massa uniformata, oggi potremmo dire “robotizzata”, che usa una lingua sola, una lingua meramente funzionale, che ha annullato ogni legittima specificità. Ecco perché l’Eterno interviene, reintroducendo la diversità (simboleggiata dalla pluralità delle lingue), ovvero la coscienza vitale dell’alterità.
Babele
Cercammo un nome
per paura della morte
squadrammo la parola.
E la parola-argilla
scordò che era terra
reclamò l’altezza di una torre
divenne più preziosa della vita.
Per lei
rinunciammo al tempo del riposo
alla carezza, allo spazio
che differenzia il senso.
Finché
fu il mondo un’evidenza
senza volto
– rumore
di fondo
che nessuno ascolta.
Ma nella dispersione
capimmo
che il nome dura solo
se dalla voce affiora
l’uomo.
(da “Midbar”, Raffaelli 2019)
Quando supera il rischio di essere omologata e omologante, la parola si rivela ciò che è destinata ad essere: una realtà capace di rinnovarsi e di rinnovare. Non a caso, il termine ebraico “dabar” significa sia parola che evento. Una parola-evento. Una parola che non resta lettera morta, ma che accade di continuo, sfugge a ciò che vuole circoscriverla, si mette in cammino.
Sillabare.
Quando si crede che la linea è finita
bisogna ricominciare.
Imparare di nuovo
a lasciarsi cadere
sulle labbra il suono.
E poi leggere le cose
a voce alta, vedi
perché si alzino in piedi.
In punta di piedi.
(da “A grandezza naturale. 2008-2019”, Arcipelago Itaca 2020)
*
Dabar
Ogni parola è un passo.
Cambia nel dirsi e nell’ascolto
come una distanza
raggiunta con il corpo
e superata.
[…]
Ogni parola è un balbettare
forte dell’inciampo
con cui il suono
l’invera mano a mano.
Nasce dal deserto e non lo lascia:
mentre lo attraversa
ne spinge il confine più lontano.
E nel silenzio si vede
riflessa, incinta di echi
come il profeta
che muore
carico di futuro
sulla soglia
della terra promessa.
(da “Midbar”, Raffaelli 2019)
Il cammino della parola è un attraversamento di distanze e di deserti. La parola nasce dal silenzio e al silenzio approda. La parola più densa, più forte, è infatti quella che è stata capace di rinunciare a se stessa. Ad esempio nell’ascolto. E poi nell’arrendersi all’inesprimibile. Per questo, il silenzio non è solo la nascita e la fine della parola: di silenzio è impastata la parola che apre spazi e visioni, che accoglie realtà contrastanti e che lascia libertà a chi incontra, dopo aver operato una trasformazione. Ecco perché la parola conosce bene la solitudine.
Sulla scogliera scoscesa
sull’ultima zolla indivisa
dove è confitta la tua bandiera
resta.
Contro il petto fatti serrare
come uno scudo
contro la tempesta.
Solitudine
resta.
(da “A grandezza naturale. 2008-2019”, Arcipelago Itaca 2020)
*
Piantato contro i loquaci
mi piace
l’albero che non prende forma
ma segue il respiro del cielo
e del cielo culla
instancabile
l’orma.
(da “A grandezza naturale. 2008-2019”, Arcipelago Itaca 2020)
*
Vuoto a perdere
Vorrei avere tempo. Tempo da perdere.
Vorrei un’anima. Un’anima a perdere.
Vorrei che il fuori fosse pari al dentro.
Che per le parole
fosse il silenzio stampo.
E che l’eterno colasse
nello sfragis
di un lampo.
(da “A grandezza naturale. 2008-2019”, Arcipelago Itaca 2020)
*
Salirà
vedi già sale
sul pendio più erboso
una docile mandria
di parole
e su tortuose scale
con la giara piena
la fedeltà a ogni cosa.
Salirà
anzi è già qua
la scintilla in cerca
della sua matrice
come adesso
alla tua bocca sale
il mio silenzio audace
e là trova
la sua pietra focaia
la sua pace.
(da “A grandezza naturale. 2008-2019”, Arcipelago Itaca 2020)
La parola ha in sé sia il silenzio che il grido. Un grido anche silenzioso, a volte, come quello della preghiera, dell’invocazione, della poesia. Il grido della parola è l’ammissione della propria insufficienza, la ricerca di un contatto e di un’accoglienza, il desiderio di riportare in vita ciò che si è amato.
Never-ending
Anche se hai mille fanti
chiamami. O mille amanti.
O nomi.
Chiamami
anche se l’impresa è finita
e la sorte si finge decisa.
Ma diversamente
chiamami
da come vorrei.
Chiamami anche se non capissi
che lo stai già facendo
o mai smettessi
di arrivare
in Te.
(da “A grandezza naturale. 2008-2019”, Arcipelago Itaca 2020)
*
Dolore, ti riconosco
dal volo circolare.
Non mi importa
da quali altezze provieni.
Né voglio sfuggire
al becco che si allunga
verso la memoria.
Si dice che da dentro, dal cuore
la preda ti implora, che da dentro
comincia la sfida.
Ma è là dentro
che ti lascio sfamare.
E da fuori mi sforzo.
È da fuori che inizio la lotta
con la piega che taglia la bocca.
Io la incurvo al sorriso. La esploro.
E lo so, non mi sbaglio.
Le mie labbra
avranno la meglio.
(da “A grandezza naturale. 2008-2019”, Arcipelago Itaca 2020)
*
Si scava una parola
come nel tufo
una nicchia
che accolga cari
simulacri.
Nasce dal vero
l’immagine amata
e dal corpo assente
il verso
che lo invoca, che tenta
di farsi nel tempo
compenso
riparo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, La Vita Felice 2018)
Tra gli archetipi biblici, uno dei gridi-preghiera più toccanti è quello espresso da Giobbe, perché in fondo, partendo dall’indignazione verso un Dio assente, si trasforma in un canto d’amore.
Parlerò io
“Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico?” (Gb 13,24).
“Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro. Languisco dentro di me” (Gb 19,27).
1.
Ricordati
che è un soffio questa vita.
Il mio occhio s’abbuia
si perde.
Il tuo
mi cercherà solerte
ma io non sarò più:
chi cade giace inerte
non germoglia
se lo tagli
nulla ricresce.
Perché conti i miei passi
mi dai la caccia
e ti nascondi?
Perché trafiggi
le mie reni?
Sei tu che mi plasmasti!
Se almeno
tu mi chiudessi nella morte
fino a svuotarti d’ira
e poi mi richiamassi!
Risponderei.
E tu di nuovo
mi vorresti.
2.
Cos’è che crolla in me?
Cosa rimane
se stendi uguali i giorni
sul boia e l’innocente?
Chi mente
non vacilla.
Prospera il più forte
e il gregge dell’iniquo
non ha aborti.
Perché taci?
Dove il mio sbaglio?
L’uomo
scandaglia il mare
fruga la terra
cerca nelle rocce l’oro.
Ma non c’è spazio o tempo
da cui estrarre
l’ultimo responso.
Non si acquista
con onice o topazio.
La mente non lo scova
non l’ospita l’udito
la voce
gira su se stessa.
3.
Ma è successo.
Invece
di trovare una risposta
ti ho visto
coi miei occhi.
Su me
le tue pupille
sono le stelle e il buio
che le tiene, la creta
premuta dal sigillo
la neve, l’alta pastura
il parto della cerva
e i nervi
di ogni creatura indomita.
Sono il pianto
che conforta
e anche la morte
che finisce
dove al tuo sguardo il mio sguardo
senza capire
si unisce.
(da “Midbar”, Raffaelli 2019)
Alla parola che cerca accoglienza, la risposta più bella è la promessa. E la promessa più liberatoria è quella che dice: “Io ci sono per te”, senza necessità di spiegazioni.
Dal roveto
“Mi diranno: «Qual è il suo nome?». E io che cosa risponderò loro?»” (Es 3,13).
Io-ci-sono-io-ci-sarò:
non ti lascio
e non sono ancora
tutto.
Come un nido è il mio Nome
che cresce con l’uomo.
In me
c’è spazio per il grido
la lode
il dubbio.
Torna se vuoi.
Se puoi spicca il volo.
Se anche mi scordi
non sarai mai
solo.
(da “Midbar”, Raffaelli 2019)
Affinché l’età delle parola, pur offuscandosi o perdendo parte della sua caratura, ritrovi la forza che le è connaturale, credo che dovremmo fare proprio questo: curare la parola in modo tale che sia sempre, in qualche modo, trasformatrice, consolando o risvegliando il cuore e la coscienza.