Tropaion
Puntoacapo Editrice, 2020
Poetica del “polemos”
Dalla prefazione di Gianfranco Lauretano:
Vita hominis militia est?
Il simbolismo che permea Tropaion, la cui prima sezione non a caso s’intitola Una battaglia non vista, attinge a un immaginario militare: «I miei soldati/ hanno pugnali saldi/ e pettorali sporchi»; «Lungo le coste/ un vento spinge i fuochi delle torri»; «Tra le nostre opposte trincee/impigliato nel filo spinato/ un cavallo/ senza padroni»; «Volgerà alla fine/ anche questa battaglia/ non vista»… Ma a quale battaglia si fa accenno? Raffaela Fazio ci offre un suggerimento già all’inizio della raccolta, citando alcuni autori classici. L’autrice si riferisce sia alla dinamica insita nella natura dell’esistenza ˗ il “polemos” eracliteo, per cui la vita è una continua lotta tra contrari ˗, sia al conflitto interiore che l’individuo sperimenta, spesso in maniera celata, tra pulsioni contrastanti. Questa “tensione”, per quanto a volte dolorosa, rimane vitale. La scrittura di Raffaela Fazio la evoca costantemente. […] La vita è lotta, ma anche possibilità di trasformare la lotta in vittoria. Da qui il titolo del libro, Tropaion. In parte, la vittoria consiste già nella capacità di rivolgere uno sguardo diverso alle cose. […] Un aspetto determinante della tensione di questa poesia, a cui si accennava, è dunque il desiderio che spinge alla conoscenza, a partire da un’esitazione di fronte al già visto, una pausa prima della definizione. L’avvio di tale processo è la chiara percezione del mistero di tutto. E del mistero dell’io. […] Rigore e libertà. La scrittura di Raffaela Fazio riesce a conciliare entrambi. Il suo rigore formale significa assenza di ammiccamenti: nessuna concessione a emozioni facili, nessun colpo stonato di teatro. […] Complemento del rigore è una musica raffinata, che fa da basso continuo a questa scrittura. Ancora una volta, siamo nel rifiuto di effetti speciali. […] Insieme alla musica, fanno da controcanto al rigore la suggestività delle immagini e la leggerezza del linguaggio, che sfumano i contorni, ammorbidiscono la precisione, allargano lo spazio, liberano il senso. Un senso che, sempre in movimento, diventa «meno labile» proprio quando il “buio” si trasforma in una «più orecchiabile nota di fondo».
Poesie
I miei soldati
hanno pugnali saldi
e pettorali sporchi.
Sui tuoi nel sonno
è facile vittoria.
Ma nessuno torna.
Restano là, dentro al silenzio
indistinti, confusi con i vinti:
lo stesso volto.
Ombra che si getta su altra ombra
e l’ama perché affine.
Un solo esercito che aspetta
di essere sepolto
al mattino nella mente
o in fondo al corpo
finché il tempo
ne fa bianco corredo:
memoria di altra vita
nella notte
ancora in piedi
– armata in terracotta.
*
Lo senti? C’è un fiato
selvatico, furioso dietro l’arte
di cui si copre
anche il più piccolo segreto
nell’attimo in cui infine
vuole essere tradito.
Eppure
scuotendosi rivela
solo ciò che lo nasconde:
si gonfia l’erba alta
e non si apre
˗ soffio dopo soffio
si crede il proprio moto, il vento
confonde
l’innocenza del sussulto
con il celato accanimento.
*
La ferita
Nel ripulirle i bordi
aspetteremo
che a forza di guardarla
riveli un tratto familiare
e che al mattino
il male si raccolga
come vegliando
un cadavere supino, forestiero
con indosso l’uniforme del nemico
tra le spighe scure, chine
accanto al fosso.
*
Vedere
non meno dell’invisibile
(nel fuoco
la sabbia farsi vetro)
e ricordare
senza guardare indietro.
*
Gli oggetti dopo il trasloco
Li diresti intatti
immemori
del luogo precedente
padroni nuovamente di se stessi.
Non li cambia
neppure l’inclinarsi del riflesso
con cui si parlano tra loro.
Forse è davvero
soltanto
un riproporsi al rito
o al semplice piacere
di un possesso.
Per molti almeno.
Alcuni
se li guardi bene
sono un naufragio
un vuoto retroattivo
di bellezza
– illecito dolore.
Ci sono
ma non ne hanno più motivo
né certezza.
*
Corte interna
Il giorno scova in sé un rifugio
indugia, chiama a raccolta le voci
dove nessuno le cerca
insegna
a non fare finta
che la luce per sempre si conservi
più in alto
e anche che a salvare è il pianto
la sporgenza, il buio randagio
quando alita sul vetro
un benevolo disagio.
*
Volgerà alla fine
anche questa battaglia
non vista
con la naturalezza
dei fossili, dei clasti
a riposo
nel chiuso dei versanti.
In ciascuno
la ressa
di vite, di detriti, la fatica
sarà scasso
per il tempo a venire
– un lascito migliore.
*
La memoria
ci guida fino all’alba
poi rallenta.
Il tempo degli eventi
la distanzia.
E la sua narrazione
è un desiderio
a cui si torna
senza mai arrivare
come mai si arriva
a un luogo dell’infanzia.
*
Revisione
La materia
di cui la vita è fatta
mi è sconosciuta
ma so che non somiglia
a nessuna
delle poesie che ho in testa
o alle parole
che limo e che combino.
Per quanto io mi sforzi
l’istante non può essere riscritto.
Arriva in bella copia
ed è per questo
che anche nel dolore
si proclama
– perché unico –
il migliore.
*
Le nostre ombre
ci camminano davanti
ci chiamano a riempirle con lo sguardo
fino al giorno
della coincidenza
tra il viaggio e il loro fuoco interno.
Altri le spingeranno al largo
credendole lanterne
sposate al riflesso che le accresce
se da sotto, convesso, le consuma.
*
Il tempo
ci tiene tra le zampe
ha il nostro stesso odore.
Ci calma
col battito indolente
la mite indifferenza
ai giochi di schermaglia
la sua schiena dorata.
È questa sua lentezza che ci salva
ma poi anche lo scatto
col quale si fa evento
– istante che artiglia
e mette in fuga
la morte
o le dà senso.
*
Tra le specie
Così insicuro l’uomo
così diverso
da tutto
se nel resto del creato
il primo contatto tra le specie
è fame, non stupore.
Ma l’uomo non è fatto
per la lotta.
Il suo indugiare
somiglia alla coscienza
o al suo sonaglio:
un salto
e poi la meraviglia.
*
Dall’alto del colle
Il tonfo
dei disarcionati
lo schianto dei vessilli
il cozzo di corazze
tra il crepitio degli elmi
è questo, appena:
un tremito di terra sotto i palmi.
Da qui
null’altro si distingue
che un fiacco balenio.
Tra il fondo della valle
e la ventosa cima del pendio
quale distanza?
Non si misura in ore
di cammino o in dislivelli
ma in una sola cosa:
la vista
non teme più lo spazio
e coglie all’improvviso
il senso della luce:
la mano si disserra
˗ in punta al giavellotto
un nuovo inizio, un lancio
che mi scaglia.
Mi tendo e vibro (sospesa
felice traiettoria di un pensiero)
e non atterro.
Note/ recensioni/ estratti
Recensione di Maria Clelia Cardona su “Legendaria” n. 141-142 (aprile-luglio 2020)
Versi, quelli di Raffaela Fazio, che fanno trasparire la vita in filigrana
«È un errore credere che la letteratura possa venir prodotta dalla materia grezza. Bisogna uscire dalla vita», scrive Virginia Woolf sul suo diario (22 agosto 1922), volendo dire con questo che la letteratura ha le sue fondamenta nella vita, ma si eleva poi in una costruzione in cui convergono pulsioni segrete, inconscio, immaginazione, modelli linguistici e visivi depositati nella psiche e misteriosamente riaffioranti. A questo si pensa leggendo Tropaion, la recente raccolta di poesie di Raffaela Fazio. Traduttrice, laureata in lingue e politiche europee all’università di Grenoble e poi specializzata presso la scuola Interpreti e traduttori di Ginevra, Raffaela ha di recente tradotto le poesie d’amore di Rilke (Silenzio e Tempesta, Marco Saya Edizioni, 2019), ed è indubbio che questo lavoro abbia influito anche sulla sua sensibilità poetica. Ricca di echi classici, rimodulati attraverso la poesia moderna (Dickinson e, naturalmente, Rilke, direi), Tropaion lascia trasparire la vita in filigrana, ma non ne racconta le evenienze: piuttosto cattura le luci e le ombre (emotive, psicologiche) che ne derivano, avvolgendo i dati con la foschia dei riflessi impressi nel linguaggio. Raffaela ne è ben consapevole: «La materia/ di cui la vita è fatta/ mi è sconosciuta/ ma so che non somiglia/ a nessuna/ delle poesie che ho in testa/ o alle parole/ che limo e che combino./ Per quanto io mi sforzi/ l’istante non può essere riscritto.» Tropaion è parola greca che indica il trofeo, cioè le spoglie e le armi del nemico vinto che i guerrieri greci riportavano in patria. Il conflitto è dunque il tema centrale del libro, che ha in esergo due indicative citazioni: «Polemos di tutto è padre, di tutto è re» di Eraclito e «Un’Afrodite pacata, mi auguro, non una dea violenta» di Euripide. E certo, se il conflitto di cui si parla rientra nella casistica della milizia amorosa, vediamo trattarsi di Una battaglia non vista, come titola la prima sezione. Ne emerge una femminilità combattiva che si spende nello scontro e aspira alla vittoria, ma non senza attenzione all’avversario e all’“invisibile” che si intreccia ai rapporti umani: nel fuoco la sabbia si fa vetro, leggiamo a p.21. Gioco, fuga, caccia: «La natura ha bisogno di tensione» e «In eterno si rincorrono gli amanti… Distanti, diversi». L’esito della battaglia è già implicito nel titolo: «Ma oggi finalmente/ non sei dove io sono: è tempo di condono/ e il chiavistello è tolto» (p. 22). Ai rovi, al furore, alle «opposte trincee» subentra il guardare gli oggetti dopo il trasloco e il loro mutare e perdere la vecchia identità. Il divenire finalmente se stessi, come la donna, ora libera dai chiavistelli. La naturale disposizione dell’autrice a metaforizzare e tradurre in immagini l’esperienza, talvolta sfumandone le certezze con un contrasto di luci e ombre, non viene meno nelle sezioni successive: in Imago, la seconda sezione, dominano i temi della memoria, della vista, del tempo, di un avvertire il fuoco che si annida nelle ombre e che annulla i confini fra gli umani. E compare anche la consapevolezza dell’impossibilità di catturare la vita nella scrittura, intesa come una sorta di traduzione di un originale inaccessibile (“Il filtro”, p. 37). Ancora un titolo che richiama il conflitto è quello della sezione Avanguardia, dedicata ai figli, nella quale alla disposizione amorosa si unisce la consapevolezza delle difficoltà insite nel rapporto: «Sei vicina/ come un paesaggio in corsa/ verso la mia finestra. […] E io non posso / che tenerti stretta/ a distanza», dice la madre alla figlia Juliette (p. 71). E ai due figli: «Staccatevi un poco/ perché vi metta a fuoco/ perché vi legga col giusto respiro» (p. 76). Il libro, dunque, con la sapienza di versi volti a catturare verità difficili e sfuggenti, ci offre una riflessione calibrata e problematica sulla conflittualità, vista secondo una prospettiva femminile – conflittualità alla quale, dice Raffaela nel passo introduttivo, occorre offrirsi, anche se si tratta di entrare in terre straniere e di farsi attraversare dalle ombre «per poi riconoscere la natura di ogni ferita, in noi e negli altri» (p. 11). È attraverso la lotta che la vita rinnova le sue forze, ma a differenza delle altre specie, che lottano per fame, la specie umana è incline alla coscienza, alla meraviglia (p. 47). Si pensa dunque all’Afrodite non violenta di cui parla Euripide e che qui, senza nulla togliere agli imperativi di Polemos, viene posta a salvaguardia delle tensioni umane.
*
Avvenire, domenica 13 settembre 2020
Raffaela Fazio, quell’oratorio è poesia di voci
di VINCENZO GUARRACINO
Scorrere la bibliografia più recente di Raffaela Fazio, autrice di origine toscana (nata ad Arezzo, vive a Roma), si nota come una drammatica accelerazione, un crescendo creativo e operativo, che negli ultimi anni l’ha vista attivarsi su diversi fronti, tra studi iconografici, traduzioni e libri di poesia, come esito necessario di un bagaglio di interessi e studi molto ampio e variegato (tra lingue e diploma in Scienze Religiose e Master alla Gregoriana di Roma). Nel primo ambito, quello dell’iconografia, la sua indagine s’è indirizzata verso una lettura della “foresta di simboli” costituita dall’iconografia cristiana delle origini, al di là dello stratificarsi del tempo e delle sue forme: una lettura dunque del symbolon, del “volto” stesso della Fede (e Face of Faith, si intitolava l’opera del 2011), teso a dare visibilità a un messaggio essenziale oltre i suoi codici, per trovare dai dettagli conferme a intuizioni e inquietudini, nella convinzione, come si diceva una volta, che è proprio nei dettagli che si annida la verità. Un discorso quanto mai intrigante e necessario. Ho indugiato su questa opera fondativa, non a caso: perché è, mi pare, il leitmotiv che indirizza e accompagna il lavoro successivo, soprattutto poetico, della Fazio, come ricerca di un qualcosa che attivi e fondi, oltre l’antico, la “vita”, l’oggi di ogni possibilità e attesa attraverso un franco confronto e dialogo. È questo che si riscontra, per restare alle due raccolte più recenti, Midbar (Raffaelli, 2019) e Tropaion (Puntoacapo, pagine 98, euro 15): il bisogno, nel primo caso, di dare un “volto” al “deserto” (è il significato del titolo) attraverso una parola come esperienza di contatto tra Indicibile e umano, tra Eterno e storia. “L’Eterno / è silenzio sottile /che ti vuole e che non rivela /niente: solo/ ti concede un respiro/ e un’ansia più mansueta”, dice in un testo, secondo me centrale, in cui si mette in scena “la voce del silenzio sottile” che reclama una totale disponibilità, un “ecce ancilla” che dia inizio al miracolo; un’identica attesa, una disponibilità ai segni, alla “vita” (un testo della prima sezione è intitolato proprio “La vita parla”), anche nel secondo caso, che nel titolo Tropaion letteralmente allude a una battaglia e a una “conquista”, come esito di una riflessione sulle modalità di attivazione e coesistenza nell’esistenza umana delle forze contrastanti e divergenti, anche in senso eracliteo, per approdare a una suprema armonia. Un esempio di questa ansiosa domanda, eccolo nel testo “Oratorio materno”: un dialogo teso a tre voci – tra Madre, Figlio e Silenzio -, quest’ultima commentante e tutt’altro che distante e distaccata. Si interrogano e chiedono ragioni, le tre, con quel “Dove sei?” e “Perché?”, che si ripete insistentemente nelle parole della Madre come un drammatico contrappunto, di fronte all’impossibilità di una risposta. Il titolo, “Oratorio”, certo, ci indirizza verso la decifrazione della situazione, con quel che di sacrale il termine comporta (ma ogni dolore e confronto ha sempre un che di sacro, nel senso più etimologico di “separato”, diverso): spazio di un’incessante attesa di una “fonte” e di una “luce”, di invocazione di amorose corrispondenze nel segno di una “voce” essenziale: tutto nel segno, oltre che esistenziali necessità, anche di sublimi modelli anche letterari (penso a Jacopone da Todi).