Midbar
Raffaelli Editore, 2019
Rilettura degli archetipi biblici
Dalla prefazione di Massimo Morasso
Al principio era (ed è) il dialogo
[…] La pratica della poesia come orizzonte di sopravvivenza della lingua biblica nelle lingue delle tribù (la vita postuma della rivelazione nell’esercizio di una forma di conoscenza a-concettuale in cui perdura il suo effetto) è la scommessa che spiega in larga misura l’interesse anche storico di questo libro. Raffaela Fazio sa bene di giocare a un rilancio di vitalità e di conoscenza espressiva sul terreno di un’ambiziosa lingua perforata e duttilissima, piena di spezzature, latrice di immagini di pensiero e allegorie che nello specchio opaco e luminescente dei loro modelli veterotestamentari riflettono un doppio riferimento, una doppia referenza che punta sempre ancora a “fare simbolo” fra una rivelazione celeste in forma di annuncio e una narrazione terrestre della condizione umana […]. Perciò, capovolgendo la pressione ideologicamente e stilisticamente negativa che caratterizza questo scorcio di secolo, mette in opera una piuttosto inedita poesia come scienza della rammemorazione figurativa, dando corpo a un arazzo mito-esistenziale che assume l’altrove come griglia esegetica e le res gesta dell’incontro fra l’umano e il divino come fabula che muove la storia, l’umana e la divina (ma come distinguerle, alla fine?). Così facendo, rimette in moto – sia pure in versione laica e psicologicamente aggiornata – una fertile strutturazione della religione nel factum letterario. Cosa che, come ovvio, non ha niente a che fare con un atteggiamento religioso nei confronti della poesia. Così facendo, ancora, dà conto con sbarazzina autorevolezza non tanto del fatto, evidente di per sé, che la lingua e la imagery biblica possono sopravvivere nella poesia, quanto del fatto che proprio la poesia è il luogo di uno sfondamento metafisico attraverso il quale un ordine superiore a quello umano veicola all’uomo dei significati. […] Nessun fideismo per amore di quiete. Nessun ammicco a una veggenza ispirata. Nessuna voluttà spiritualista, e nessun parasole ideologico per riparare dai raggi crudeli dell’esistenza. In una poesia lucidamente revisionista come questa di Midbar, che inizia, paradigmaticamente, con il verso “Ogni parola è un passo”, a ogni passo terrestre corrisponde un doppio speculare che spinge l’occhio dalla vista della realtà alla visione di un’altra, più sottile realtà. Una realtà arcaica in cui gli uomini e il loro Dio sembrano poter parlare fra di loro senza nessun bisogno di intermediazione. Qui conoscenza dei fatti e dei misfatti di uomini, donne, patriarchi, profeti e altri abitanti del mondo creato e immaginazione non si escludono a vicenda. E infatti il poema (perché di poema tripartito, in fondo e sottotraccia, pur si tratta), percorso com’è dalla corrente di un epos di matrice ebraica nella quale vibra l’eredità della tradizione della santificazione del nome, può essere letto anche come un viaggio, nella lingua, per strapparla alla tirannia del monologo, e rimodularla all’altezza della sua natura essenzialmente dialogica. Frugare nei microcosmi umani del mito biblico, raccontare e “reinventare” con afflato religioso delle figure che appartengono già da quasi sempre al patrimonio del nostro immaginario, per la Fazio significa, innanzitutto, fare della poesia morale. […] Dal basso di un’identità multipla e sfuggente – in queste pagine, fra gli io poetanti c’è addirittura l’albero della conoscenza del bene e del male! -, la Fazio prova a reggere alle tentazioni dell’io-sono e a farsi tramite di un’esperienza linguistica nuova, dove parole e figure ereditate dalla tradizione scritturistica tendono a esprimere per vie di “finzione” una profonda verità relazionale: una verità tutta poetica, colta al crocevia della mente dove i miti fondatori incontrano un’intelligenza del cuore iper-percettiva, che mentre li accoglie intanto li decodifica. Entro queste dinamiche generali, la sua poesia può essere considerata un’originale, energizzante poesia dell’incarnazione.
***
Poesie
Dabar
Ogni parola è un passo.
Cambia nel dirsi e nell’ascolto
come una distanza
raggiunta con il corpo
e superata.
Fonda flessuosa luce le cresce dentro
se in alto
o nella misura dell’appoggio
più spazio riesce a separare
l’immagine dal nome.
E il nome pronunciato
è già percorso.
Non c’è certezza di un inizio
sul cammino.
L’origine ci sfugge
come l’istante
in cui tutta la lingua si dispiega
e il bambino
di colpo sa parlare.
Ogni parola è un balbettare
forte dell’inciampo
con cui il suono
l’invera mano a mano.
Nasce dal deserto e non lo lascia:
mentre lo attraversa
ne spinge il confine più lontano.
E nel silenzio si vede
riflessa, incinta di echi
come il profeta
che muore
carico di futuro
sulla soglia
della terra promessa.
*
Babele
Cercammo un nome
per paura della morte
squadrammo la parola.
E la parola-argilla
scordò che era terra
reclamò l’altezza di una torre
divenne più preziosa della vita.
Per lei
rinunciammo al tempo del riposo
alla carezza, allo spazio
che differenzia il senso.
Finché
fu il mondo un’evidenza
senza volto
– rumore
di fondo
che nessuno ascolta.
Ma nella dispersione
capimmo
che il nome dura solo
se dalla voce affiora
l’uomo.
*
Agar
“Abramo si alzò di buon mattino, prese il pane e un otre d’acqua e li diede ad Agar, caricandoli sulle sue spalle; le consegnò il bambino e la mandò via. Ella se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l’acqua dell’otre era venuta a mancare. Allora depose il bambino sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva: «Non voglio veder morire il bambino!». […] un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del bambino là dove si trova […]» Dio le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d’acqua” (Gn 21,14 ss).
Non sento più l’urto
dell’acqua nell’otre
né sotto il calcagno
il cammino.
Il passo
è vinto dal deserto.
Ti guardo, sei il pegno
di tutto il dolore.
Non sento più l’orgoglio
che mi perse.
Tu riposa
all’ombra del cespuglio
non gridare.
Non sento più cos’è
essere madre.
Solo il dovere
di far finire il giorno
– finzione
di una meta?
No, più niente.
Perché allora
riaffiora, si fa forza
una scintilla in gola
questa sete?
*
Ai piedi del monte
“Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani, li fece fondere in una forma e ne modellò un vitello di metallo fuso” (Es 32,3).
Conosci l’abbandono
il deserto?
Non eri forse il fuoco
e noi le volpi?
Sei tu
che ci hai voluti
allo scoperto.
Avevo piedi stanchi
fiato corto
perché ti ho amato?
Te ne sei andato
portandoti la nube. Con te
la nostra sola guida
la sua voce.
Conosci
il laccio
della nostalgia?
L’assenza di riparo?
Sì, ho dato tutto l’oro
in cambio di una danza
e di un corpo che rimane.
È immobile
bello
guardiano di ricordi
e docile alla mano
come un vitello.
*
Leggero
“Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. […] La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele […]” (Gn 28,12.18).
“Sulla bocca del pozzo c’era una grande pietra: solo quando tutte le greggi si erano radunate là, i pastori facevano rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e abbeveravano il bestiame […] Quando Giacobbe vide Rachele, figlia di Làbano, fratello di sua madre, insieme con il bestiame […], fattosi avanti, fece rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore […]. Poi Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce” (Gn 29, 2-3. 10-11).
Piano
qualcosa mi abbandona
eppure resta
qualcosa si trasforma
appena arriva.
È sogno
o polvere del giorno?
Del giorno che si corica o si leva?
Sotto la testa
ciò che era duro è lieve.
E il corpo scala:
non si appartiene
è l’insieme
dei tempi, dei doni
un plurale
di passi, di visioni
un moto.
Ciò che era pietra
distesa
è ora stele, orecchio
posato
sulla bocca del cielo.
Ciò che era masso
sulla bocca del pozzo
è rotolato, ha schiuso
altre labbra
nel bacio e nel pianto.
Qualcosa si allontana
perde peso…
*
Ossa
“La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa […] Egli mi disse: «Profetizza al soffio, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia al soffio: «Così parla il Signore Dio: soffio, vieni dai quattro punti cardinali, soffia su questi morti ed essi rivivranno» […] Ecco, essi vanno dicendo: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti»” (Ez 37,1.9.11).
Su te la mia mano.
Perché tremi come in una fossa?
Non staccare lo sguardo
dal bianco delle ossa.
Ma nella piana
di resti scomposti, di sassi dispersi
allena la vista
oltre quello che vedi.
Ascolta da dentro:
il midollo rilancia la corsa
come il seme sotto la scorza.
Questa valle
è solo paura, una tomba
che non vi conviene.
Io vi fascio di vene
vi rivesto di lembi
di pelle
di muscoli e nervi.
Crescete!
Aprite la bocca
allo spazio più arioso
unite la voce!
Io vi bacio
e vi estirpo i sepolcri da dentro
gli sterpi del senso ormai chiuso.
Vi conduco
alla terra
che è vostra, a un diverso
riposo.
*
Dal roveto
“Mi diranno: «Qual è il suo nome?». E io che cosa risponderò loro?»” (Es 3,13).
Io-ci-sono-io-ci-sarò:
non ti lascio
e non sono ancora
tutto.
Come un nido è il mio Nome
che cresce con l’uomo.
In me
c’è spazio per il grido
la lode
il dubbio.
Torna se vuoi.
Se puoi spicca il volo.
Se anche mi scordi
non sarai mai
solo.
*
In origine
L’albero
Ancora sento
il canto degli albori.
Nella mia chioma
il buio
soffiando su se stesso
non si separa dalla luce.
Come fossi
l’unico rimasto
privo di confine
nel gioco del creatore.
Io – l’indistinto
non ho nome
e nessun vuoto mi misura.
Eppure ho nostalgia
di una lentezza
mai esistita
dall’occhio che mi volle
alla mano
che fu subito bocca.
Io sono l’albero-frutto
succoso
in tutte le mie parti.
Da me si passa
per morire.
La donna lo sapeva:
per generare
barattò l’eterno con la storia
s’iscrisse nella fine
e offrì un inizio.
Ora si porta dentro
il bene e il male
uniti
come un primordiale
abisso.
Tra lei e il mondo
non c’è più distanza
non c’è solo visione
ma un gusto sempre nuovo
di coscienza
– sapienza del dolore.
Il suo peccato?
La fretta nell’avermi:
non attese
davanti al desiderio
e non ne condivise
la lotta
il necessario incanto.
Io sono
la camera oscura
di un possesso sfalsato.
Sono la memoria
di un sapore mai svelato
inguaribile
la nudità
un tempo commestibile.
*
Le prime tavole
“Mosè si voltò e scese dal monte con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra […]. Quando si fu avvicinato all’accampamento, vide il vitello e le danze. Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò dalle mani le tavole, spezzandole ai piedi della montagna” (Es 32,15-16.19).
Lo schianto
della pietra sulla pietra.
E poi il silenzio
vuoto di vento dopo la scossa.
Si spezza la materia:
sventa il possesso
affida
le parole al volo.
Altre le seguiranno
solcheranno il tempo
orfano di un lato.
Ma le prime
dove sono
se non nel fiato
che le cerca? Nella mente
o nell’inesistenza?
Il loro dono è
l’incertezza, il sogno
del frammento che si è perso
l’affanno
che non si rassegna
e come l’ala
che si getta nel nulla e si sente
sorretta
la libertà:
non arriva
all’antica lacuna
ma ne varia
tra i segni la distanza
e riscrive
daccapo la memoria.
*
Rachab
“Poi li congedò e quelli se ne andarono. Ella legò la cordicella scarlatta alla finestra” (Gs 2,21).
Vengono a me
da dentro la cinta
spinti dal freddo delle loro certezze.
E anche da fuori
dal deserto che confonde
le mie carezze con le carezze amate.
Pane caldo il mio corpo
vivanda
che a nessuno si nega.
Vivo tra i mondi.
Dal margine si vede il tempo
uguale, steso
sopra la cesura.
Eppure
questa volta
ho scorto un lampo
e il mio destino
come un fiato
sotto steli di lino
un vuoto nelle mura.
Cambiano i potenti
fanno la storia.
Io chiedo solo
una cordella rossa
e ciò che posso:
salvare chi amo
attraversando me stessa
come una finestra
sulla vita che passa.
*
M’introduca il re nelle sue stanze
“Mi sono addormentata, ma veglia il mio cuore” (Ct 5,2).
Di notte tra i seni
il mio amato:
sacchetto di mirra, rugiada.
Il lino trasuda
copre
– come velo nel tempio –
il sacro vuoto
fragile potente
ineffabile quanto la morte.
Non scuotete dal sonno l’amore
se non vuole!
Scendi, scendiamo
tra steli acri e lievi.
Recluso nel giardino, il giardino
delle noci
come un sogno prigioniero
di altro sogno.
Dentro il tempo infinito
il suo principio, la gemma
di fuoco:
è delizia, privazione.
Non scuotete dal sonno l’amore
se non vuole!
Nella fessura
ha introdotto le dita.
Ho aperto
ma lui si è ritratto, è svanito.
Muto lo spasmo.
Una porta
sul nulla, una buca ubriaca
che rimbomba delusa.
Una tomba.
La gola si serra
come sotto la terra
la radice vermiglia.
Cieco veggente
il corpo soffre e s’inebria.
Amore, torna!
Che io sia
tua custodia, risveglio!
*
Qol demamah daqah
“E un vento fortissimo che spacca montagne e spezza le rocce era davanti al Signore. Non nel vento, l’Eterno. E dopo il vento, un terremoto. Non nel terremoto, l’Eterno. E dopo il terremoto, un fuoco. Non nel fuoco, l’Eterno. E dopo il fuoco, un suono di silenzio sottile. Come l’udì, Elia s’avvolse il viso nel mantello e uscì sulla soglia della grotta” (1 Re 19, 11-13).
Non vento di bufera
frastuono
non fuoco o tremore
non guerra, non pace
ma bocca che si apre
senza suono.
L’Eterno
è silenzio sottile
che ti vuole e che non rivela
niente: solo
ti concede un respiro
e un’ansia più mansueta.
Rinunci a capire:
è il tuo modo
di attendere il futuro
perché la conoscenza
è un’illusione.
Il vero si fa strada
se i sensi sono arresi
complici del dubbio.
E mantice
l’assenza.
*
Parlerò io
“Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico?” (Gb 13,24).
“Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro. Languisco dentro di me” (Gb 19,27).
1.
Ricordati
che è un soffio questa vita.
Il mio occhio s’abbuia
si perde.
Il tuo
mi cercherà solerte
ma io non sarò più:
chi cade giace inerte
non germoglia
se lo tagli
nulla ricresce.
Perché conti i miei passi
mi dai la caccia
e ti nascondi?
Perché trafiggi
le mie reni?
Sei tu che mi plasmasti!
Se almeno
tu mi chiudessi nella morte
fino a svuotarti d’ira
e poi mi richiamassi!
Risponderei.
E tu di nuovo
mi vorresti.
2.
Cos’è che crolla in me?
Cosa rimane
se stendi uguali i giorni
sul boia e l’innocente?
Chi mente
non vacilla.
Prospera il più forte
e il gregge dell’iniquo
non ha aborti.
Perché taci?
Dove il mio sbaglio?
L’uomo
scandaglia il mare
fruga la terra
cerca nelle rocce l’oro.
Ma non c’è spazio o tempo
da cui estrarre
l’ultimo responso.
Non si acquista
con onice o topazio.
La mente non lo scova
non l’ospita l’udito
la voce
gira su se stessa.
3.
Ma è successo.
Invece
di trovare una risposta
ti ho visto
coi miei occhi.
Su me
le tue pupille
sono le stelle e il buio
che le tiene, la creta
premuta dal sigillo
la neve, l’alta pastura
il parto della cerva
e i nervi
di ogni creatura indomita.
Sono il pianto
che conforta
e anche la morte
che finisce
dove al tuo sguardo il mio sguardo
senza capire
si unisce.
Note/ recensioni/ estratti
Nota di Plinio Perilli
GRADIVA n.° 57
Già da vari anni Raffaela Fazio, aretina del ’71, che lavora a Roma come traduttrice dopo aver vissuto un decennio in vari paesi europei, ci dona titoli e opere di sicuro talento, e soprattutto di intrigante, emozionante originalità. Penso alle liriche de L’ultimo quarto del giorno (2018), e, prima ancora, alla secca, ma anche effusa circonvoluzione mitopoetica, rapinosa serra iconologico-figurale di Ti slegherai le trecce (2017): quasi un modo nuovo, moderno e psicoterapico di colloquiare, rapportarsi ancora con Cassandra o Selene, Medea e Atalanta, le due Elene ed Eco, Clizia ed Alcesti… le tante donne immortali, dèe, maghe o creature, che affollano le pagine dei miti, ma più ancora i pertugi, le anse, i bagliori, le zone d’ombra della nostra introiettata, ancestrale coscienza; insomma la tramatura stessa, il tessuto (in)cosciente degli archetipi, e l’inesausta metamorfosi che ci palpita dentro. Ancora una raccolta importante fu nel 2015 L’arte di cadere, quasi un trattatello amoroso-esistenziale di struggente valenza, e respiro pieno, macerato fra dubbi e certezze, oltre la logica per fortuna irrazionale d’ogni passione: “Dove sono / quando non sono / dentro il tuo sguardo?”.
Ma ora la scommessa è certo ancora più salda – e per lei necessaria. Midbar è testo coraggioso e ispirato: sorta di calco biblico, di controcanto poetico a molti brani della Genesi, da Agar a Isacco, da Caino e Abele a Giacobbe in lotta coll’angelo; o dell’Esodo, con Mosè che rompe le due tavole della Testimonianza, alla vista del vitello d’oro e delle danze lascive; o ancora da Ezechiele, da Rut, dai Salmi, dal libro dei Re: “L’Eterno / è silenzio sottile / che ti vuole e che non rivela / niente: solo / ti concede un respiro / e un’ansia più mansueta.”
La parola ebraica dabar è costruita dalla radice d-b-r il cui verbo significa parlare. La parola ebraica midbar, tradotta con deserto, è in realtà “il posto della parola”, il luogo nel quale la parola di Dio, la Bibbia, è stata comunicata ad Israele. Dabar di Jhavè (parola di Dio) ha un duplice, inscindibile valore. Il “dicere dei est facere” di S. Tommaso (In 2 Cor 3,2,1) può essere rovesciato: “facere Dei est dicere”. Insomma, il dabar ebraico non è un logos nel senso classico della lingua greca, cioè una parola pensata, ma è un evento (Cfr. Gen 15,1). E su quest’assioma fulgido e senziente, divinato e introiettato ad infinitum, Raffaela Fazio costruisce, intesse tutta la tramatura dorata, gnomica e profetante, della sua ricerca: “MiDBaR è dunque il luogo sia dello svuotamento che dell’incontro, entrambi necessari a una parola che, per esistere, deve farsi cassa di risonanza dell’alterità”.
È una poesia preziosa, un empito raro, un rito ispirato, ripercorrere tutto il Verbo che era fin dal principio, ed era – lo sappiamo, ci crediamo – presso Dio… “MiDBar, deserto. DaBaR, parola. Il deserto come luogo della parola, che nasce nel silenzio e al silenzio ritorna… Ma DaBaR è anche evento. Una parola evento che si inscrive nel tempo, accettando i rischi del divenire”. Massimo Morasso, nella sua nobile prefazione, giustamente evidenzia l'”umile ardire” di tutta l’operazione; e cioè, “rendersi disponibili, come Raffaela Fazio, a una scena mentale aperta al brivido dell’interrogazione sull’essenza trascendente della parola”. Proposta oltretutto “in forte controtendenza rispetto all’orientamento poetico e creativo” oggi prevalente e alle usuali, fin troppo percorse e usurate “tentazioni dell’io-sono”… Ma noi osiamo un complimento forse ancora più fausto, liberato e librato. Cresciuti come siamo coi poderosi approfondimenti romanzeschi di Thomas Mann su Giuseppe e i suoi fratelli, e innamorati delle forti accelerazioni mistiche di un Clemente Rèbora, o delle rivisitazioni “laiche” di Mario Luzi, insomma dal perenne e inesauribile Battesimo dei nostri frammenti – l’humus del ‘900 – troviamo ora in questo breve vademecum biblico, che è genoma sacrato, quasi il DNA della nostra tradizione scritturistica (vera “poesia dell’incarnazione”, chiosa Morasso), l’emozione che già ci diede – non è poco – la lettura dei libri e delle avverate agnizioni mistiche di Edmond Jabès (1912- 1912), grande poeta francese nato e formatosi in Egitto, poi espulso nel ’57 perché ebreo, e impariginatosi. Il suo Libro delle interrogazioni, e poi delle somiglianze, della sovversione non sospetta, del dialogo, della condivisione, dell’ospitalità, nei quali rimedita l’avventura stessa della scrittura (Dal deserto al libro), e il rapporto tra silenzio e parola.
Raffaela ha, a tratti, la stessa infibrata, risolta e gnomica illuminazione; la stessa medicamentosa sintesi d’infinito e bagliore (o montaliano barlume) transeunte, che le parole, quasi affidate “al volo” (o la memoria, tutte le memorie degli uomini) fermano ma non rivelano, incidono e giurano fra la luce e il buio: “Il loro dono è / l’incertezza, il sogno / del frammento che si è perso / l’affanno / che non si rassegna // e come l’ala / che si getta nel nulla e si sente / sorretta / la libertà”.
***